Si può notare come una parte del movimento d’opinione più “prudente” rispetto all’emergenza Covid tenda ad attribuire credibilità alla formazione ed alla competenza in modo incostante, a seconda del momento e della posizione espressa dal soggetto.
Se ad esempio un medico o uno scienziato con un buon cv, ma che tuttavia non sia un virologo, invita alla cautela, la sua preparazione è citata quale garanzia, mentre se a parlare è uno Zangrllo, docente e primario, allora diventa “solo” un anestesista (nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore è il “medico di Berlusconi”), dunque bollato come non competente in materia. Ma anche i titoli di un Bassetti, pure infettivologo, sembrano non avere valore rispetto a quelli di uno statistico o di un biologo, mentre si arriva persino a sminuire, con teorie del complotto degne di un Marcianò, la storia di chi ha vinto un Premio Nobel per la Medicina. Cosa ancor più singolare, luminari del calibro di un Silvestri o di un Clementi, che oggi sposano una linea più “ottimistica”, vengono subdolamente ignorati, per l’ovvia difficoltà di colpire tanto in “alto”.
Un atteggiamento ai limiti del fanatismo ideologico, che stride con l’etica di chi fa della ratio e della competenza certificata un feticcio e una “conditio sine qua non”, di chi esalta il “principio di autorità”. Un criterio selettivo, che poi è una vera e propria fallacia logica e un calderone di bias cognitivi, improbabile ma soprattutto dannoso per l’immagine della scienza sul medio-lungo periodo.