“Social housing” o “social house“, che tradotto in italiano sarebbe con semplicità “casa popolare“. Ebbene, anche se in inglese il binomio di parole acquista una sfumatura migliore, più moderna, quello di cui si occupa è un tema datato.
Si parla quindi dell’edificazione di quartieri o abitazioni rivolte alle categorie sociali svantaggiate con basso reddito, come anziani con assegni pensionistici bassi, nuclei famigliari disagiati o anche studenti fuori sede.
Ma queste strutture come si interfacciano con l’ambiente?
Spesso, quando osserviamo un palazzo o un complesso di case popolari, quello che notiamo è che i loro volumi infrangono l’orizzonte, oscurano la vista, non seguono e non hanno alla base una ricerca stilistica, né si inseriscono nel contesto cittadino, ma sono definite opere da “pugno in un occhio” dalla gente comune.
Nel corso degli anni si è preferito, nella maggior parte dei casi, concentrarsi sulla problematica essenziale: la realizzazione di nuclei abitativi strettamente funzionali, abbattendo così i costi per il costruttore e per l’inquilino.
Non serve guardare molto lontano, basta infatti camminare per i quartieri delle nostre città, o leggere alcune delle pagine del Volume “Cento anni di Edilizia Pubblica a Massa Carrara” dell’ERP, dove si racconta la storia dell’ente, ma anche, si citano i giudizi negativi o luoghi comuni, sulle case popolari, definite infatti “cubi di cemento, non rispondenti ai canoni dell’arredo urbano, avulsi da ogni riferimento architettonico“. Molte di queste costruzioni ovviamente furono edificate in periodi di emergenza abitativa, a causa degli eventi bellici o calamità naturali, per cui rispondevano solo ai criteri di funzionalità e risparmio costruttivo.
Nell’ottica dei vincoli di spesa e della complessità dell’ambiente costruito, è interessante perciò citare ciò che è riuscito a fare Alejandro Aravena, vincitore del premio Pritzker Prize nel 2016 – il Nobel dell’architettura – architetto cileno, fondatore dell’impresa sociale ELEMENTAL S.A., e curatore quest’anno della Biennale di Architettura di Venezia Reporting from the Front, appena conclusa.
La sua brillante carriera non è certo dovuta alla sua giovane età, appena 46 anni, ma piuttosto per il suo approccio, definito da molti “sperimentale“, alle problematiche reali dei nostri tempi, quali l’emergenza abitativa.
Il progetto per le case di Quinta Monroy, 93 unità abitative, costruite nel 2003 ad Iquique in Cile, parte proprio con una domanda essenziale quanto banale: “Come realizzare una casa per una famiglia con 7.750 dollari (circa 7.250,00 euro) per alloggio?” Ovvero con risorse che, tradotte in termini di mercato cileno sono pari a quelle sufficienti per 30 mq?
La soluzione all’apparenza semplice, non fu, realizzare una “casa piccola”, che dal punto di vista economico è la scelta più conveniente per il costruttore, ma non adeguata alle esigenze di una famiglia, soprattutto se numerosa.
Questo perché una casa per una famiglia costretta in 30 mq è forse economica, ma è necessariamente una casa in cui “tutto è piccolo”, ed è perciò una casa del tutto sbagliata.
Non avendo però le possibilità di realizzare una “casa intera”, si è chiesto Aravena e il suo team di progettisti, quale fetta o metà di casa giusta dovremo realizzare?
La scelta fu di progettare e costruire proprio quella metà di casa che la famiglia da sola non sarà mai in grado di realizzare (scale, muri portanti, servizi ecc..), lasciando il resto all’iniziativa di ogni nucleo, senza contare quanto denaro, energie, tempo ciascuno di loro sarà in grado di spendervi da soli.
Una sorta di “incremental house” – una casa progressiva – che coinvolge in maniera attiva le persone che la abitano, in un processo molto importante, quale la personalizzazione della propria abitazione.
Insomma un progetto che fa interagire tutti, gruppi, comunità, istituzioni, nell’ambito di un laboratorio comune di innovazione sociale, in cui si ha una relazione diretta tra partecipazione sociale e il lavoro dei professionisti.
Ma questo non è l’unico progetto, nel 2010, Aravena realizza il Monterrey Housing, un complesso di 70 case per la classe media, in Messico. Questo progetto consiste in un edificio continuo a tre piani con un appartamento al primo piano e degli appartamenti a due piani ai livelli superiori. In linea con l’idea di social housing ai proprietari viene consegnata la metà, mentre l’altra metà lasciata all’autocostruzione.
Il tetto continuo sopra i volumi ripara la zona di espansione dalla pioggia e fornisce all’edificio un profilo ben definito all’interno dello spazio urbano. Non è lasciato al caso anche lo spazio verde, importante elemento di aggregazione sociale, posizionato al centro del complesso degli edifici, con lo scopo di ridurre al minimo la distanza tra gli spazi comuni e gli alloggi, e definire accessi sicuri.
Sulla stessa scia progettuale Villa Verde Housing, in Cile, altro progetto di social housing sviluppato nel 2013 per offrire alloggi ai lavoratori di un’azienda forestale cilena. I mini appartamenti sono sviluppati su due piani e costruiti con telai in legno sostenuti da fondazioni in calcestruzzo arricchiti da ingegnose finiture. Anche in questo caso si lascia alla spontaneità degli abitanti il completamento del complesso.
L’impatto dei progetti di ELEMENTAL per l’housing sociale è tanto inaspettato, quanto dirompente da un’altro interessante punto di vista: «Devo confessare – racconta Aravena in un’intervista rilasciata a dezeen magazine – che all’inizio l’housing sociale era la cosa da fare meno cool che si potesse immaginare […] Fino ad oggi abbiamo costruito 2.500 alloggi […] Ogni singolo progetto ha regolarmente triplicato il suo valore. Questo per le famiglie è la prova che hanno una ricchezza tra le mani, una risorsa (incrementale, n.d.r.) con cui possono andare in banca e chiedere un prestito per avviare una piccola attività. Per questo, in qualche modo, è possibile considerare che l’alloggio progettato in questa prospettiva non è solo un riparo, ma è uno strumento per superare la condizione di povertà».
Con questa semplice modalità la casa diventa persino uno strumento utile a migliorare, nobilitare la propria condizione di vita.
Il social housing non solo deve costituire un fattore di arricchimento per la persona, rendere accogliente il luogo dove si vive, ma anche avere lo scopo di far rivivere quei luoghi urbani abbandonati, migliorando così le condizioni di vita delle persone.
Ed è proprio questo il nodo centrale, l’innovazione che dobbiamo cogliere.
Coltivare una sensibilità nei confronti del ruolo sociale del progetto, perché l’architettura deve essere proprio questo: partecipazione e condivisione.
Dunque un’attitudine progettuale, quella di Alejandro Aravena, che coniuga etica, politica, estetica e costruzione, prefabbricazione e artigianato, pianificazione e spontaneità, sempre nel rispetto dell’uomo, e verso una umanizzazione dell’architettura, insomma un vero esempio da seguire.
Un saluto e auguri di buone feste,
Brunetta Ulivi.
Foto 1: http://inhabitat.com/12-top-projects-by-2016-pritzker-prize-laureate-alejandro-aravena/villa-verde-housing-by-alejandro-aravena-2
Foto 2,3: http://www.architectmagazine.com/project-gallery/quinta-monroy-housing_o
Foto 4,5,6,7,8: http://www.arcspace.com/features/elemental/quinta-monroy/
Foto 9,10,11,12,13,14,15,16,17,18,19,20,21: http://www.archdaily.com/52202/monterrey-housing-elemental/50089c1128ba0d50da001300-monterrey-housing-elemental-photo
Foto 22,23,24,25,26,27,28,29,30: http://www.archdaily.com/447381/villa-verde-housing-elemental