Secondo gli storici Richard Hofstadter (statunitense) e Isaiah Berlin (britannico), mentre l’utopia socialista risiede nel futuro, quella populista risiede ed è proiettata nel passato. Si tratta di una definizione molto efficace, che descrive e riassume il fenomeno populista (oggetto di questo brevissimo contributo) e la sua essenza prima, culturale e politica.
Il populismo considera infatti il passaggio di potere dalle masse ai loro rappresentati come l’archè di tutti i mali, la rottura di un equilibrio naturale. Spezzare questo meccanismo diventa così imprescindibile e per farlo bisogna tornare a mettere al centro l’ “uomo comune”, che viene idealizzato come depositario di ogni bene e virtù, al contrario delle “élites” che sono invece presentate quali nemiche dei popoli e ripiegate su loro esclusivo interesse particolare.
Da qui, da questo “peccato originale”, da questa “caduta dell’uomo” (Cocco), il rigetto del presente nel suo insieme, il continuo torcicollismo e il pessimismo verso il futuro. Il populismo è quindi soprattutto uno “stato mentale” (La Palombara) o, come suggerito dal politologo australiano Kenneth Minogue, uno stile politico più che un’ideologia, una sindrome più che una dottrina. Ancora, secondo lo studioso statunitense Mark Lilla, è la “narrazione del mondo che abbiamo perso”. Lilla offre uno spunto interessante anche per quel che riguarda il populismo nella sua declinazione reazionaria: “Dove altri vedono il fiume del tempo scorrere come ha sempre fatto, il reazionario vede i detriti del paradiso passargli davanti agli occhi […] Il rivoluzionario vede il futuro raggiante che è invisible agli altri e ciò lo entusiasma. Il reazionario, immune alle menzogne moderne, vede il passato in tutto il suo splendore e ciò lo entusiasma”.
Riferimenti bibliografici: “Qualunquismo. Una storia politica e culturale dell’uomo qualunque”, di Maurizio Cocco