Da sempre minoranza all’interno del PD e trattatati come tali, i centristi hanno iniziato a pretendere il loro posto al sole dopo l’arrivo e l’ascesa di Matteo Renzi. Questo ha determinato la condanna dalla componente di sinistra, abituata a considerare il partito come una derivazione del PCI-PDS-DS e gli ex DC-PPI-Margherita solo come portatori d’acqua, buoni per le urne. Lo scisma renziano potrebbe dunque pacificare il PD (almeno in parte) e attirare i voti della “sinistra-sinistra”, ma il rischio concreto è quello di trasformarlo in una sorta di LEU allargata o di quercia 2.0, mandando a monte i progetti riformisti dell’ultima decade.
Dall’altro lato Renzi sa di non poter più ambire ad un ruolo guida tra i democratici e allora prova a mettersi a capo del popolo moderato e liberale, contando anche sul declino di FI. Impresa difficile e già tentata senza fortuna da Monti, Fini, Dini e Segni (e prima di loro da Benedetto Croce) e complicata anche dal fatto che la popolarità dell’ex “enfant prodige” di Rigano non è più quella di cinque anni fa e dal suo passato alla guida del centro-sinistra di governo. Pur con le ovvie e dovute differenze del caso, Renzi potrebbe seguire lo stesso destino del già citato Gianfranco Fini, che perse ogni credibilità quando cercò di riciclarsi fuori tempo massimo.
Il Matteo toscano è probabilmente finito come leader in grado di competere, ma il non voler rendersene conto non è imputabile soltanto ad un Ego ipertrofico ma anche ad un sistema che permette la sopravvivenza a politici che hanno subito sconfitte, presentato dimissioni e giurato di abbandonare la scena. In qualsiasi altro grande paese occidentale, lui, come del resto un Salvini, un Berlusconi o un D’Alema, sarebbero ormai fuori dai giochi, impegnati in conferenze o attività culturali o di consulenza.
Forse c’era, la “casa nuova” di cui Renzi parla oggi, ma lui non sapeva più cosa farsene.