Subito dopo il suo arrivo al Kremlino, Michail Gorbačëv intensificò l’azione militare in Afghanistan, sorprendendo e deludendo chi già sperava in un nuovo córso.
Le truppe di occupazione sovietiche procedettero infatti ad un’imponente ristrutturazione, dotandosi di nuovi elicotteri e di reparti speciali più mobili e addestrati alla guerriglia. Fu inoltre incrementata la pressione sul Pakistan, minando i confini con l’Afghanisitan, aumentando gli incidenti di frontiera, i bombardamenti sui campi profughi e gli attentati terroristici compiuti da agenti infiltrati. Pure la propaganda contro gli USA, accusati (esattamente come avviene oggi) di sostenere una “guerra non dichiarata”, conobbe un’accelerazione.
Lo scopo di Gorbačëv era giungere ad una soluzione politica dopo aver raggiunto una vittoria militare, opzione che tuttavia abbandonò subito, ritenendola irrealizzabile. Il 25 febbraio 1986, durante il XXVII Congresso del PCUS, il leader sovietico annunciò quindi l’intenzione di avviare un progressivo disimpegno dal teatro afghano.
Il ritiro dall’Aghanistan, un obiettivo molto importante sia per ragioni strategiche (ad esempio il controllo degli stretti di Ormuz) che di prestigio, ridimensiona il mito che considera impossibile l’abbandono, da parte di Mosca, delle ambizioni sull’Ucraina, una sostanziale sconfitta russa in Ucraina. Se infatti è probabilmente vero che Putin “non può perdere”, ossia che non accetterà mai uno smacco plateale, è altrettanto vero che per i suoi successori la questione avrà un significato diverso, consentendo loro di gestirla con maggior pragmatismo e maggior equilibrio proprio come fece Gorbačëv con l’Afghanistan rispetto a chi era venuto prima di lui.