Quando John F.Kennedy incontrò per la prima volta Nikita Chruščëv, a Vienna, nell’ottobre del 1961, rimase molto impressionato dall’omologo sovietico, e non in modo positivo. Ostile e bellicoso, Chruščëv rimproverava infatti agi USA la loro condotta su Cuba (in particolare, il blitz della Baia dei Porci) ma, soprattutto, premeva per un accordo su Berlino, fino al 1945 il nodo principale sul tavolo tra l’Est comunista e l’Occidente democratico. La possibilità, per i cittadini della DDR, di fuggire all’Ovest senza impedimento alcuno e quella, per i residenti nel settore occidentale, di fare acquisti a prezzi stracciati nella zona Est, erano infatti per Mosca un problema sempre più pericoloso, destabilizzante e imbarazzante, da risolvere in modo rapido e decisivo.
“Sono trascorsi 16 anni dalla fine della II Guerra Mondiale, disse Chruščëv a Kennedy , “e l’URSS ha perduto in quella guerra 20 milioni di persone e molte delle sue aree sono state devastate. Ora la Germania, il paese che scatenò quella guerra, ha riacquistato le sue forze militari e ha assunto una posizione dominante nella NATO. Questo minaccia una III Guerra Mondiale”.
Tra le opzioni presentate dal leader sovietico, quella di fare di Belino una “città aperta”.Tuttavia, Chruščëv avvertì che se gli USA si fossero tirati indietro, “l’URSS avrebbe firmato unilateralmente un trattato di pace con la DDR e di conseguenza tutti i diritti di accesso a Berlino scadranno perché cesserà di esistere lo stato di guerra”.
Un vero e proprio aut aut, dunque, dinanzi al quale la posizione del capo della Casa Bianca fu di assoluta fermezza e intransigenza: “Se venissimo estromessi da quell’area”, questa la risposta di JFK, “e accettassimo la perdita dei nostri diritti, nessuno Avrebbe più fiducia negli impegni e nelle promesse degli Stati Uniti […] L’Europa occidentale è vitale per la nostra sicurezza nazionale, e noi l’abbiamo sostenuta in due guerre. Se dovessimo abbandonare Berlino Ovest, si sentirebbe abbandonata anche l’Europa […]. Noi siamo a Berlino e ci siamo da 15 anni, e intendiamo restarci”.
“Se nel giro di sei mesi non firmeremo un accordo insieme, nessuna forza al mondo impedirà all’ URSS firmare un trattato di pace”, rilanciò il capo del Kremlino, che concluse: “Io voglio la pace, ma se vuole la guerra, è un suo problema”.
La situazione, drammatica perché potenzialmente esplosiva e dalle conseguenze potenzialmente apocalittiche, sarebbe stata inaspettatamente e definitivamente risolta qualche mese dopo con la costruzione della barriera di separazione tra Berlino Est e Berlino Ovest, una soluzione che, di fatto, risolveva le urgenze di Mosca senza portare ad un blocco della metropoli e quindi ad una prova di forza in piena regola (come avvenuto, ad esempio, nel 1948-1949).
Se ne accorse lo steso Kennedy, il quale si imitò ad inviare il suo vice nella città tedesca senza proferire parola sulla vicenda: “E’ il suo modo (di Chruščëv, ndr) di risolvere la guerra”, confidò ai suoi collaboratori. “Non è una soluzione molti bella ma un muro è dannatamente meglio di una guerra!
Odiato e identificato dal mondo democratico come il simbolo dell’oppressione e della negazione dei diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino. nei suoi quasi 30 anni di vita (dal 13 agosto 1961 al 22 dicembre 189) il Muro lasciò ai suoi piedi 239 vittime, un numero importante ma irrisorio se messo a confronto con le proporzioni di una guerra termonucleare e convenzionale combattuta tra la NATO e il Patto di Varsavia. Per la sua inerzia davanti alla realizzazione di quella barriera, JFK venne accusato di aver tradito i tedeschi-occidentali, svendendoli in una nuova Monaco.
La storia gli avrebbe però dato ragione.