Nel 1903, l’uomo politico e saggista italiano Napoleone Colajanni diede alle stampe “Latini e anglosassoni. Razze inferiori e razze superiori”, opera in cui rilanciava il primato delle civiltà latine, e in particolare di quella italiana (facendo perno soprattutto sulla figura di Mazzini), sulle civiltà nord-europee.
Un approccio tutto sommato insolito per un liberale e moderato quale Colajanni, che però trova spiegazione nella volontà di ridimensionare il razzismo germanico che allora sembrava in crescita ed espansione. Un razzismo di tipo biologico, che nel II Reich si andava accompagnando all’esaltazione della potenza miliare del Paese.
Nel libro, la critica del politico di Enna si rivolge infatti specialmente alla Germania, pur senza deragliare verso teorizzazioni di natura (pseudo)scientifica e senza negare certe arretratezze sociali, economiche e culturali del mondo mediterraneo.
A differenza degli attacchi alla Germania tipici di quegli anni e sorti in reazione al riavvicinamento tra Roma e Berlino (ultimo trentennio del sec XIX), come ad esempio quelli di natura economica di Pantaleoni, Carli, Ferara, Fanno, Preziosi e Federzoni o quelli di natura politica, geopolitica e culturale di Villari, Bonghi e Prinetti, le osservazioni di Colajanni si concentravano su un aspetto, il suprematismo razziale, che si delineava come asse portante della cultura tedesca, e per certi versi come suo vettore. Colajnni procedeva quindi oltre lo stesso “Sonderweg”, il mito negativo della Germania protesa all’espansione a discapito degli equilibri internazionali.
Un contributo che può risultare utile in occasione di ricorrenze come quella odierna, per capire come il Nazismo non fu un caso unico e straordinario, un evento insolito e improvviso dettato dalla follia di un singolo individuo o di un singolo segmento generazionale, ma un fenomeno di straordinaria complessità, inquadrabile nelle peculiarità storiche del suo terreno di coltura.