“Ma buon Dio! Ma che ci sia una sosta nelle preoccupazioni, nella tristezza e nelle insoddisfazioni: che ci sia un po’ di sosta! Dopo sei giorni di lavoro viene la domenica, no? Chi ha lavorato sei giorni avrà diritto di andarsene con la famiglia a gioire sulla spiaggia, in montagna, o altrove. Che gli si deve dire? Oh, ma come mai gioisci? Guarda che ti attende il lunedì!”
Così Sandro Pertini nel 1982, a un giornalista che gli chiedeva se la grande esultanza per la vittoria al Mundial spagnolo non rischiasse, come paventato da qualcuno, di far dimenticare i problemi del Paese, di un Paese.
Aveva ragione, Pertini, che per inciso non era un superficiale ma un uomo che aveva conosciuto e sperimentato il peggio della vita e degli uomini; il calcio non è solo calcio, non è solo sport, e sbaglia chi non vuole rendersene conto. Ma sbaglia anche chi lo ritiene una “semplice” emozione. A certi livelli, su certi palcoscenici, il calcio e lo sport trascendono e diventano politica, geopolitica, cultura, costume, economia, diplomazia. Ed è così dall’età Antica, dall’antica Grecia. Si potrebbe scrivere un trattato di Storia o di scienze a sociali a riguardo, e infatti ce ne sono, ce ne sono tantissimi.
Pensiamo, ad esempio, al valore ed al significato di Olimpiadi come quelle del 1936 o quelle del 1980 e del 1984 (del “boicottaggio”), ai Mondiali di calcio del 1978 o a quelli di rugby del 1995, che diedero al “nuovo” Sudafrica l’oppotunità di mostrarsi, e di farlo in maniera vincente, al mondo. Si pensi a match di pugilato come la duplice sfida tra Max Schmeling e Joe Louis, con l’America rooseveltiana e la Germania hitleriana che si sfidarono sul ring prima che sulle spiagge della Normandia, e al Tour de France del 1948. Si pensi all’influenza, nella società e nella politica, di atleti del calibro di Muhammad Ali, Jackie Robinson, Tommie Smith, John Carlos, Arthur Ashe, Greg Louganis, Diego Maradona, Primo Carnera o i già menzionati Schmeling e Louis.
La Guerra Fredda si consumò non sui campi di battaglia, per nostra immensa fortuna, ma su quelli da gioco, dove USA e URSS, Est e Ovest, ebbero l’occasione di mostrare la qualità e la superiorità dei rispettivi modelli.
Si consideri, inoltre, il ruolo che i successi sportivi hanno avuto per la Germania Ovest nel secondo dopoguerra, aiutandola a riscostruire la propria immagine. Stessa cosa per la Spagna degli anni 2000, i cui calciatori, cestisti, piloti e tennisti le hanno permesso di accreditarsi come un Paese moderno e competitivo, dopo i decenni bui del franchismo e dell’aretratezza. E quanto merito hanno avuto, le arti marziali nel promuovere la cultura dell’Oriente? Moltissimo. Il Brasile punta oggi all’ingresso nel club delle grandi potenze, a non essere più solo la nazione delle favelas, anche in virtù dei suoi ambasciatori nelle discipline sportive. Tornando al 1982, grande fu l’impatto sulla nostra economia e su noi tutti. Quel successo, per diversi storici è stato addirittura uno spartiacque tra gli “anni di piombo” e i “dorati” anni ’80.
Si chiama, risiamo alla geopolitica, “soft power”, ovvero “l’abilità di un potere politico di persuadere, convincere, attrarre e cooptare, tramite risorse intangibili quali cultura, valori e istituzioni della politica”* ed è spesso molto più potente, incisivo e duraturo dell’ “hard power”, il potere che deriva dalla forza militare. E nel “soft power” rientrano le arti, tutte e sette, la moda, la cucina, la lingua, e, appunto lo sport, gli sport.
Si è parlato anche di diplomazia; bene, lo sport non è esclusivamente un terreno di “scontro” ma pure di confronto, di dialogo. Chi può dimenticare la “diplomazia del ping pong” tra gli USA di Nixon e la Cina di Mao?
Da ieri, un italiano qualsiasi che si trovi all’estero non sarà, volendolo spiegare meglio, un anonimo turista o un anonimo “expat”, ma il simbolo e l’ambasciatore di un sistema che funziona e sa competere, in un ambito importante e popolare, che attira l’attenzione.
Non è solo calcio, non è solo sport, non è solo emozione. E’ prestigio, è forza, è genio. Ed è una serie infinita di opportunità, a 360 gradi, che aspettano di essere colte. Non riguarda più solo Roberto Mancini ma pure Mario Rossi e non perché la FIGC si mantiene anche con le tasse del contribuente. Non comprenderlo, snobbare con alterigia il trionfo di Wembley (“è solo una partita”, “adesso cos’è cambiato?”), significa non conoscere il passato e nemmeno il presente.
*Robert Keohane-Joseph Nye, “Power, Interdependence and the Information Age” from Conflict After the Cold War