Divampata all’inizio nel Nord Italia, la peste manzoniana del 1630 si diffuse progressivamente nel resto della Penisola. In Toscana, area che offre allo storico ed al ricercatore numerosi spunti di interesse per studiare il fenomeno e il suo impatto sull’Italia, fu portata in estate da un commerciante di Trespiano (un borgo vicino Firenze) che aveva violato il cordone sanitario, andando a Bologna. Non sono poche, come si può vedere e anche in questo caso, le similitudini con la situazione odierna.
Dall’andamento altalenante, la pestilenza conobbe un picco elevatissimo nell’autunno del 1630, per poi calare tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera dell’anno successivo e riesplodere ad agosto (a causa del ciclo vitale dei ratti e delle loro pulci, i principali veicoli del contagio). Ed è proprio nell’estate del 1631 che si verificò un’altra drammatica similitudine con il quadro attuale (pur con le ovvie e scontate differenze del caso), ossia la mancanza di posti letto nei lazzaretti e negli ospedali.
Come ebbe a dire a riguardo il dottor Stefano Arrighi, coraggiosissimo medico 30enne impegnato contro la peste nella città di Pistoia: “Qua continuamente crescono gli ammalati e manchono i medicamenti , poiché a più riprese si è mandato a chiedere al provveditore et al Ceppo coppette, sapone nero, conconi da cavar sangue et altre cose et qua non viene niente, onde perché questi mali patiscono poca dilazione si ne patisce assai et gli ammalati non possono essere spediti con quella brevità che si ricercha. Di biancheria et coperte la maggior parte dei letti è senza lenzuola et ancora con poche coperte. Di letti gli ammalai stanno cinque per letto con detrimento de’ convalescenti, poiché con lo stare insieme et i mali essere contagiosi vengono a tornare in recidiva”.
Ancora, da un’altra relazione, successiva, del Dott. Arrighi: “Si ritrovano nel lazzaretto in ordine per ire allo hospidale di Capo di Strada fra huomini et donne in venti persone: vi sono vestiti sei per huomini et sei donne; Li pregho operare [che ] venghino il resto de’ vestiti acciò tuti possano andare in Capo di Strada. Gli ammalati nel lazzareto sempre vanno crescendo et non vi è più luogho ove metterli poiché stanno quattro o cinque per letto. Ci è bisogno di cerotti et olii et lo hospidale del Ceppo duce non ne haver più; si come anchora ci bisogna cigne per legare li ammalati che eschono fuori di sé . Nel hospidale di Capo di Srada vi è ventuno ammalati et non vi è che sei letti…[ad essi] hancora si lamentano del vitto et pane quale è tanto scarso che dicono non potere vivere”.
Una realtà infernale, quella descritta dal medico, e comune a quasi tutti i paesi europei travolti dalla “morte nera”. Sempre in Toscana, e pure a Pistoia, dall’estate-autunno 1630 i deputati della Sanità reagirono cacciando i forestieri, i saltimbanchi e gli ebrei (mai considerati pienamente cittadini come gli altri), costruendo nuovi lazzaretti, assumendo nuovi medici, requisendo gli effetti personali dei morti per poi inviarli a lazzaretti (coperte, cuscini, ecc), requisendo le case vicine al lazzaretti, velocizzando le dimissioni dei guariti, aumentando la prevenzione con visite a chi cominciava a manifestare i primi segnali di un malessere sospetto.
Al di là, lo abbiamo detto, delle differenze tra un’epoca e l’altra, la drammaticità dello scenario illustrato può forse servire da esempio e monito anche al contemporaneo, suggerendogli quella prudenza utile ad evitare comportamenti a rischio che possano danneggiare la collettività sovraccaricando le strutture di assistenza
Nell’immagine: la peste seicentesca
PRIMA DEL CORONAVIRUS – “State a casa”; se il monito arriva da un medico del 1600
Davide Simone
Aquilano residente in Toscana, è giornalista iscritto all’ Albo, storiografo e consulente di comunicazione politica. Collabora da anni con numerose testate generaliste ed è cofondatore di quotidianoapuano-www.ilsitodimassacarrara.it, il primo quotidiano on line generalista della storia apuana.