Negli anni della peste seicentesca, le autorità dei numerosi Stati in cui si allora componeva e divideva l’Italia diedero prova di un notevole spirito unitario di fatto; città e potenze diverse e rivali come Firenze, Genova, Venezia, Lucca, Milano, Mantova, Parma, Bologna, Ferrara, Ancona o Modena, mantennero infatti una comunicazione molto stretta, collaborando gomito a gomito e scambiandosi pareri e informazioni per combattere e contenere il morbo. A tal proposito desta particolare interesse l’accordo di mutuo soccorso che il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova e lo Stato Pontificio strinsero dall’autunno del 1652 al 1656-1657.
A seguito di un “bando” disposto nel giugno 1652 da Genova verso le navi provenienti dalla Sardegna, per via del diffondesi della peste nella città di Alghero, Livorno e Pisa* adottarono misure restrittive anche nei confronti della Corsica**, data la sua vicinanza con la Sardegna. Ratificato frettolosamente dai magistrati della Sanità di Firenze, il blocco della Corsica (dove non era stato registrato alcun caso di infezione) causò la reazione furibonda di Genova e una crisi diplomatica tra le due potenze destinata a protrarsi per mesi.
Resosi conto dell’errore e delle conseguenze che esso aveva determinato (innanzitutto un caos pericolosissimo dovuto al fatto che le due parti indirizzavano alle varie città italiane informazioni diverse e contrastanti), il granduca tese una mano a Genova offrendole una “capitolazione”, cioè un accordo di collaborazione da estendersi anche a Napoli e alla Sana Sede e in base al quale i tre Stati si sarebbero scambiati informazioni sull’andamento del’epidemia, avrebbero adottato comuni misure per il suo contenimento e avrebbero dislocato uno i rappresentanti nei porti dell’altro, al fine di garantire l’osservanza delle misure concordate.
Accettata da Genova, e in forma meno vincolante da Roma, la “capitolazione” fu respinta dalle autorità partenopee, anche per l’impossibilità di garantire un eventuale blocco dei convogli spagnoli, essendo Napoli un possedimento del Paese iberico. A riguardo sarà utile menzionare il comportamento del reggente napoletano, che oltre a mostrarsi scortese verso l’ambasciatore fiorentino disse senza mezzi termini che loro il comitato sanitario non aveva nessuna credibilità, essendo composto da due semplici nobiluomini che avevano comprato la carica e che, per questo, cercavano di rientrare nella “spesa” con la corruzione. Ciò interviene anche a smentire una certa vulgata anti-unitaria, che vuole Napoli e il Sud generalmente e storicamente più avanzati e progrediti del resto d’Italia, prima del 1861 e prima delle stese Due Sicilie.
Approfondimento: “bando” e “sospensione”
In quel periodo, gli stati italiani presero una serie di provvedimenti restrittivi di vario livello al fine di contenere l’epidemia, spesso non molto diversi da quelli attuali.
In particolare, ne spiccavano due:
-il bando
-la sospensione
Se in entrambi i casi tutte le merci e tutti gli individui provenienti dalle zone bandite o sospese potevano entrare solo da porti o valichi specificati e con all’interno stazioni di quarantena, il “bando” era una misura applicata quando la presenza della peste era stata accertata (si trattava allora di un provvedimento dalla scadenza indefinita, che molte volte imponeva persino la chiusura delle stazioni di quarantena), mentre la “sospensione” era una scelta precauzionale, revocabile in ogni momento. La zona sospesa poteva infatti soltanto confinare con una bandita o non avere osservato adeguate misure di controllo sanitario, causando i sospetti e i timori delle autorità degli altri stati
*città granducali
**possedimento genovese