Nei giorni più drammatici dell’emergenza Coronavirus ha tenuto banco il dibattito (peraltro non ancora spentosi) sul reale numero dei contagiati e sui criteri da adottare per il calcolo delle vittime ( morti “per” o “con”). La difficoltà nell’individuare il numero esatto dei soggetto colpito da un’epidemia e da una pandemia, e dunque l’ andamento delle sesse, è del resto sempre stato un problema, per la medicina e le istituzioni, oggi come ieri.
Nel passato, ad esempio, erano esclusi da conteggio i bambini (data l’elevatissima mortalità infantile pure a cose normali) e i malati che non si presentavano dai medici per la scarsa fiducia nelle cure, mentre i funzionari pubblici e gli stessi medici non sempre denunciavano l’esplosione di un focolaio, e questo nel timore di ritorsioni (nel 1630 un medico fu ammazzato a Busto Arsizio per aver segnalato la presenza della peste).
Ad ogni modo, ciò che rendeva un’epidemia ed una pandemia di difficile individuazione e tracciamento era soprattutto il livello primitivo della Medicina, incapace di diagnosticare con esattezza e prontezza. Ecco cosa scriveva a riguardo Giovanni Filippo Ingrassia medico attivo in Sicilia nel XV secolo: “In tempo che io studiava in Padoa, nell’anno 1533, succedendo nella medesima città di Vinetia una certa pestilenza, no (seppero) conoscerla i Medici loro, né pote [rono] pigliarvi risolutione…Poiche nell’anno 1555, essendo accaduto un vero contagio forestiere…nella medesima Città di Vinetia [prevalse] la diversità delle oppinioni di quei [Medic ], che riferivano. Perché alcuni dicevano esser peste, et alcuni non, ma infermità acute, et maligne…Eccovi quanti giorni si stette una principalissima Città, come Vinetia, con tani valentissimi Medici, a pigliar ancora della essenza, et cagioni di tal morbo…Per questi esempi dunque conchiudiamo, che non deono maravigliarsi gli sfaccendati, et scalda cantoni, i quali ad altro non attendono, che ripresentarsi Momi, in giudicar tutto il mondo, se in questa città di Palermo…siamo stati per quindici, o al più veni giorni in dubbio, donde venisse, o havesse potuto venerne il male.”
Così, invece, lo storico cinquecentesco Francesco Rondinelli, sull’epidemia di peste che colpì Firenze nel 1631: “Spesso avanti il Magistrato si teneva gran parlamento da i Medici, e facevan lunghe consulte, se era peste, o no: alcuni di certo affermavano essere, altri negavano, non per vaghezza di contraddire, ma perché non credevano.”
Di nuovo, ecco un anonimo medico bolognese del XVI circa un’epidemia di peste di quegli anni: “Nel principio di quest’influsso stettero per un pezzo sospesi li medici circa il dare il proprio nome a questi mali, chi peste e chi non peste voleva che fossero, ma gl’effetti pessimi, il contaggio continuo e facilissimo da attaccarsi.”
Sempre sulla peste, e più in generale sulle difficoltà della diagnostica “antica”, risulta emblematica la testimonianza di un tale dottor Paris, con cui scegliamo d concludere: “Scrive Manlio Ficino* essere tante le varietà, & inganni de’ segni, & accidenti nella Peste & febbre Pestifera, ch’il Medico non così facilmente le può mostrare; et se parte della Medicina si fà per congettura, in niuna si fà più, che nella parte de’ segni, chiamata da i Greci Simeotica, & particolarmente de’ segni della Peste & Pestilente febbre”.
*il riferimento è al trattato “Contro alla peste” del filosofo, astrologo e umanista quattrocentesco Marsilio Ficino
Nell’immagine: il dipinto “La peste a Firenze nel 1630”