Condivisione, conoscenza. Opportunità. Internet è questo…ma no solo. Già, perché bufale, cyberbullismo e violenza di vario genere sembrano aver trovato nella rete la cassa di risonanza ideale, compromettendo così uno degli strumenti più eccezionali mai concepiti dal genere umano, per il genere umano. Ma qual è il motivo alla base del fenomeno? E, soprattutto, esiste una via di uscita? Ne abbiamo parlato con il giornalista ed esperto di comunicazione Matteo Grandi, autore del saggio “Far Web” (ed.Rizzoli)
-“Far Web”: iperbole letteraria, provocazione o visione realistica?
-Di base una provocazione. Perché se da un lato è vero che la gente invoca grossolanamente le regole per il web, come se queste mancassero, se è vero che troppi utenti scrivono e agiscono in rete come se non esistessero conseguenze, la realtà è che le norme esistono. Gli illeciti e i reati sono tali sia online che offline. I termini di servizio delle singole piattaforme – là dove disciplinano i contenuti non ammessi – sono chiare. E allora ecco che quello che da molti è considerato uno sconfinato Far West 2.0, senza regole, a ben vedere è solo una clamorosa bolla percettiva. Il problema semmai riguarda lo sceriffo: perché è quasi sempre assente e non fa quasi mai rispettare la legge? Vuoi perché le piattaforme non sono mai sufficientemente solerti nella rimozione dell’hate speech, vuoi perché le leggi, anche in altri settori della società, pur esistendo non sempre vengono applicate, vuoi perché i tempi della giustizia sono lontani anni luce dalla velocità del web. Se a questo aggiungiamo la giungla burocratica in cui rischia di imbattersi chiunque decida di adire le vie legali (non dimentichiamo infatti che la maggior parte dei reati online sono perseguibili su querela di parte), ecco che la sensazione è quella di un web disciplinato sulla carta, ma non nei fatti.
-Ma quando e come mai è nata l’idea di “Far Web”?
-E’ nata alla fine del 2016 osservando come il clima si stesse inquinando, come l’insulto fosse diventata la regola, come il dibattito fosse intossicato da false convinzioni figlie della superficialità e della convinzione di sapere, solo perché qualcuno ha scambiato il web per una terra di tuttologi. E perché mi sono accorto che, al di là dei semplici insulti, i gruppi chiusi che fanno della peggior misoginia un modus operandi, i troppi tweet e le troppe pagine Facebook omofobe e l’odio per gli immigrati che sui social tocca vette inaudite, fossero diventati una spia della nostra deriva sociale. In fondo il web e questo libro, sono stati un mezzo per capirne un po’ di più sul mondo (reale) che ci circonda.
-Nel suo libro descrive le conseguenze del cyberbullismo come peggiori di quelle del bullismo “tradizionale”. Perché ?
-Non sono io a dirlo ma le statistiche. Esiste una ricerca molto eloquente condotta da Skuola.net e AdoleScienza eseguita su un campione di studenti italiani in cui si dimostra che seppure oggi le vittime di bullismo (20%) siano ancora superiori alle vittime di cyberbullismo (6,5%), il problema si ribalta se osservato dal punto di vista della pericolosità. Infatti fra le vittime di cyberbullismo circa la metà ha pensato di togliersi la vita. Un dato molto più alto rispetto alle vittime di bullismo tradizionale. Aggiungo una mia valutazione soggettiva: il bullizzato tradizionale, per quanto vittima di una sofferenza difficile da sostenere in età adolescenziale e di un’umiliazione costante, fuori dalla cerchia dei suoi “aguzzini” non è riconosciuto come tale. Il cyberbullizzato, invece, è potenzialmente una vittima visibile agli occhi di una platea sconfinata. Forse anche per questo, per rispondere a questo allarme sociale, oggi in Italia assistiamo al paradosso per il quale il cyberbullismo è definito per legge, mentre il bullismo non lo è.
-Altro tema centrale in “Far Web” sono le “fake news”, le bufale. Un fenomeno sempre più dilagante. Ma da dove nascono? E per quale motivo la gente “abbocca”?
-Le fake news sono sempre esistite, come è sempre esistita la manipolazione dell’informazione, in primis proprio attraverso i cosiddetti media tradizionali o organi di informazione ufficiale. Sicuramente il web ha amplificato il fenomeno, anche perché oggi permette a chi diffonde scientificamente fake news di arricchirsi facilmente sulla credulità della gente. La maggior parte delle bufale che circolano in rete nascono con il solo scopo di portare clic e di conseguenza introiti ai siti e alle pagine Facebook che le diffondono. Per questo hanno quasi sempre una matrice ideologica e quelle che vanno per la maggiore sono di stampo “razzista”, perché rimestano nei pregiudizi delle persone, le quali, sentendo e leggendo quello che vogliono sentirsi dire sono più propense ad abboccare e a condividere. Al resto pensano gli algoritmi di Facebook che, costruendo le cosiddette “camere dell’eco”, di fatto, contribuiscono a creare delle vere e proprie tribù virtuali in cui le persone che hanno le stesse idee dialogano quasi esclusivamente fra loro, persuadendosi di essere nel giusto anche quando condividono delle balle conclamate, senza che possa quasi mai crearsi un vero contraddittorio con chi ha opinioni diverse. Il problema di fondo non è tanto l’ignoranza in senso stretto, quanto la presunzione di sapere: un male spesso non estirpabile. Però, se le piattaforme trovassero un modo per non far arrivare l’advertising sulle pagine degli spacciatori di bufale, si potrebbe iniziare seriamente ad arginare il problema.
-Non sono in pochi a ritenere insufficiente la vigilanza da parte degli amministratori dei social network…
-Ed è vero. Oggi gli amministratori hanno un ruolo cruciale in questa partita. Trovo sbagliato costringerli a rimuovere gli illeciti per legge, così come ha appena fatto la Germania introducendo multe salatissime attraverso la cosiddetta legge Facebook, perché si rischia poi di deresponsabilizzare la società civile e lasciare impuniti autori materiali del discorso d’odio. Fra l’altro scaricando di fatto sulle spalle delle piattaforme l’onere di stabilire cosa sia illecito e che cosa non lo sia. Ma resta il fatto che Facebook, Google e Twitter devono fare molto di più sul fronte del controllo dei contenuti sensibili. Sono loro ad avere, anche per rispetto dei propri utenti e delle condizioni di servizio che regolano la rimozione dei contenuti offensivi, il pallino in mano e a dover disinfestare per primi l’ambiente. In caso contrario il rischio è che la politica cerchi di mettere sempre più le mani in casa dei colossi del web e che contestualmente le piattaforme inizieranno a perdere utenti, per un prevedibile effetto di disaffezione.
-Come e con quali mezzi può cercare di difendersi il semplice internauta bullizzato o vittima di attacchi (hate speech, shitstorm, ecc) , se solo e lasciato solo?
-I mezzi di contrasto sono quelli che mette a disposizione la legge, anche se poi il rischio è dato dai tempi lunghi di cui sopra, se non dalle numerose archiviazioni; anche se denunciare è un modo che alla lunga può servire a dissuadere. Il secondo escamotage è bloccare chi insulta. E’ banale: ma non rispondere a chi attacca fa perdere interesse all’aggressore. Il rovescio della medaglia è che l’utente bloccato può aumentare la sua rabbia e la sua frustrazione nei confronti del bloccante; ma chi blocca si sarà in qualche modo tutelato. Il dialogo invece è assolutamente sconsigliato in questi casi: chi aggredisce in rete non ha intenzione di ragionare o di argomentare; il suo unico obiettivo è quello di ridurre la sua vittima al silenzio. Infine bisogna segnalare alle piattaforme. E magari, prima di essere lasciati soli, provare a denunciare gli abusi anche alla propria comunità virtuale. Ci sono casi eclatanti, come quello di Arianna Drago o Caterina Simonsen, in cui proprio l’intervento della “parte sana” del web è servita a ribaltare l’inerzia di situazioni-limite.
-Oggi si assiste a un dibattito molto delicato sulla necessità di contenere e combattere certe derive della rete senza tuttavia sconfinare nella censura. Qual è la sua ricetta a riguardo?
-Oggi se vogliamo evitare che qualche politico decida di mettere le mani sui social media e su internet con fini censori dobbiamo batterci sempre di più per dei programmi di educazione digitale ad ampio spettro. Se si riescono rendere gli utenti consapevoli del contesto e delle conseguenze delle proprie sparate online forse il clima può migliorare. I nostri politici, prima di partorire regole liberticide, devono capire che la strada maestra è quella dell’alfabetizzazione digitale: l’unica che può mantenere il web libero, costruendo una vera e propria cultura della rete. Poi certo, dovremo anche capire che il problema oggi è più sociale che social e che i social media non sono altro che la valvola di sfogo fisiologica delle persone in un contesto storico e sociale in cui a dominare sono disuguaglianze palesi e ingiustizie evidenti. Ma questo arriva molto prima e molto fuori della rete. Insomma, più che far web il vero problema “far from the web”.
Nell’immagine: Matteo Grandi (foto di Luca Adamo)